Melissa Damson.
Melissa
Wauchope, artista Australiana, in arte, Damson, da diversi anni lavora quasi
esclusivamente nel suo studio in Italia.
Con una laurea in Belle Arti dalla James Cook University di Queensland, ha esposto i suoi lavori in numerosi cittĂ in Italia. Nel 2009 ha partecipato alla Biennale di Venezia a Palazzo Zenobio, il padiglione degli Armeni e nel 2013 ha esposto a Palazzo Sarcinelli, Conegliano, in una mostra personale. Sempre a Palazzo Sarcinelli, ha partecipato ad una mostra collettiva a giugno di quest'anno e contemporaneamente una collettiva a
Ca' dei Carraresi, Treviso.
L'artista annuncia la sua poetica a partire dalla scelta del proprio nome d'arte: Damson, il colore delle prugne selvatiche, il colore di un rossetto usato della madre. Il colore delle labbra e del sangue. Due elementi che mettono in campo alcune tematiche del femminile: la dimensione emotiva e il tempo tondo, scandito dei riti di passaggio.
Il periodo dal 2000 al 2015 vede Damson descrivere la dimensione intima e personale che segna la vita di ogni donna, dove il suo corpo si trasforma, si dispone alla vita feconda e, sanguinando, si fa luogo alla nascita e all'amore. Con una piccola macchia rossa che segna l'inizio delle mestruazioni o della perdita della virginitĂ , gli abiti bianchi da sposa hanno suscitato turbamento alla mostra di Palazzo Zenobio, nell'ambito della 53' Biennale di Venezia nel 2009.
Il periodo dal 2015 al giorno presente vede un spostamento verso un linguaggio piĂą contemporaneo. Gli abiti appaiano meno spesso, il loro posto occupato invece da frammenti di tessuto, di pizzo - un ricordo degli abiti che vuole indicare un sipario tra terra e cielo, tra l'uomo e il mondo circostante. Sono presenti elementi di " street art " e, come fin da sua primissima opera, il simbolo della croce, che piuttosto di avere un significato religioso, intende indicare semplicemente l'unione di due opposti, due forze in contrapposizione.
Elenco Mostre
2022 Mostra collettiva giugno - Palazzo Sarcinelli, Conegliano.
2022 Mostra collettiva, Ca'dei Carraresi, Treviso.
2021 maggio - partecipazione Biennale in villa
2020 ottobre - Cordenons, Sala Comunale
2020 Aldo Moro, mostra personale.
2020 ART FESTIVAL SHOW, Santa Lucia di Piave
2020 Polcenigo mostra personale.
2020 maggio - partecipazione Biennale in Villa
2019 maggio - partecipazione Biennale in Villa, segnalazione PREMIO VENETO ARTE
2019 novembre - 11 Treviso mostra personale
2018 maggio - partecipazione Biennale in Villa
2015 maggio - e-start, Gorizia, mostra personale
2014 settembre - Florence Dance School, Firenze
2014 mostra personale, "Femminile, singolare", a cura di Giuliano Serafino
2013 ottobre - Palazzo Sarcinelli, Conegliano (TV) - mostra personale, “Life, Death, Love, Loss”
2012 giugno - Galleria L'Escale - Spilimbergo, mostra personale
2010 maggio - Ex Carceri, Motta di Livenza, (TV) - mostra personale: "Madre" marzo – Kunstart, Bolzano
2009 giugno - La Biennale di Venezia, Palazzo Zenobio, Padiglione Siriano, mostra personale.
2005 settembre - Galleria Paolo Maria Deanesi, Rovereto (TN), mostra collettiva.
2004 dicembre - Wow Gallery, Alghero (SS), mostra collettiva
2004 giugno - Galleria Juliet, Padiglione di Arte Contemporanea, Casier (TV), mostra personale.
2003 settembre - Galleria Arte a Porta Leone, Conegliano (TV), mostra collettiva.
2003 maggio - Artexpone, Castelfranco (TV), mostra collettiva.
2002 settembre - Galleria Arte a Porta Leone, Conegliano (TV), mostra collettiva.
2001 settembre - Galleria Arte a Porta Leone, Conegliano (TV), mostra personale.
2000 novembre - Galleria Exhibits, Conegliano (TV) - mostra collettiva. maggio - 555 Crown Street Gallery, Sydney (Australia) - mostra personale
Premi ricevute:
2001 - Premio Noè Bordignon
2020 - Premio Veneto Arte
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Damson
MADRE
Esco dallo studio di Damson con una vecchia
valigia di cuoio nero. Me l’ha consegnatal’artista non senza un certo
imbarazzo, salutandomi. - Potrebbe esserti utile-. Poiché ignoro il contenuto
mi dirigo verso la macchina soppesando e scuotendo con delicatezza; potrebbe
esserci qualcosa di fragile. Ad ogni passo gli oggetti all’interno si muovono
liberi. Tutto è senza peso.
Rifletto.
Un’opera concettuale non si legge solo con gli
occhi e questa azione dell’artista, questa relazione mediata dal gesto, attiva
il processo di critica attento al valore dell’idea, valore spesso prevalente
rispetto alla realizzazione concreta dell’opera stessa.
Melissa Wauchope, laurea
in Belle Arti alla James Cook University of Queensland,
annuncia la sua poetica a partire dalla scelta
del proprio nome d’arte: Damson, il colore delle prugne selvatiche, il colore
scuro di un rossetto usato dalla madre.
Il colore delle labbra e del sangue. Due chiavi
di lettura che mettono in campo fin da subito alcune tematiche del femminile:
la relazione instabile, il fluido e la macchia, la dimensione emotiva, il tempo
tondo.
Emily Dikinson scrisse < Io ho a che fare con
la circonferenza > racchiudendo in questa frase molteplici significati,
intendendo che il pensiero e il fare femminili sono rotondi, avvolgenti,
ciclici, fluidi, omnicomprensivi, universali. Ciascuno di questi attributi si ravvisa
nei lavori di Damson che non si esauriscono in singole opere ma si collegano in
serie, nelle installazioni date da foto, video, graffiti, parole, alfabeti,
collages, allestimenti e performance.
Essi propongono una riflessione sulla femminilitĂ
sotto forma di ferita.
Damson scrive un atto di dolore tutto rivolto
verso la dimensione intima e personale di ogni donna; indaga il privato piĂą
segreto e lo espone.
In una realtĂ violenta, che scopre e denuda,
Damson nasconde il corpo femminile
evocandolo attraverso gli abiti che lo
contengono. Tra tutti sceglie quelli piĂą emblematici, gli abiti da sposa
candidi. Ma il bianco purissimo è violato dal tempo, ingiallito dal suo scorrere,
macchiato di sangue. Ferito, vilipeso. Umiliato. Questa volta per davvero nudo.
L’artista analizza la condizione femminile
mostrando l’invisibile contenuto (il corpo)
attraverso e contro la visibilitĂ del contenente
(l’abito). Il luogo rimanda alle vetrine illuminate dei negozi commerciali,
vasto mare che dialoga direttamente con le dimensioni più note dell’inconscio.
Desideri e bisogni, amore e morte, domanda e offerta si ripresentano
eternamente e inesorabilmente uguali nel tempo, tempo della realtĂ e del mito
che rende tutto contemporaneo.
Qui vive il corpo di ogni donna, in particolare
della donna//madre che ha “subito” la Storia.
Ogni opera dell’artista Damson conserva le tracce
evidenti di questa Storia: reliquie, gocce, segni; polvere e luci, parole; ali
e veli.
Per questo la mostra “MADRE” è arcana, misterica,
sacrale.
MADRE è il rapporto vitale di elementi che
appartengono tanto alla Natura quanto alla Cultura. La loro relazione dĂ vita
alla Grande Madre. Madre Simbolica, dea essa stessa, rappresentazione della
Madre Reale.
Nascita e parto, sangue e latte si incontrano e
mescolano, vitali e indispensabili atti di fede.
Il corpo della donna vive la fede, si nutre di
essa, forma e genera il futuro.
Farfalle leggere annunciano il tema delle durata.
Il volo presente, nel nelle ali di Ermes dio della
comunicazione/interpretazione, e in quelle di Icaro simbolo di precarietĂ , annuncia
l’effimero della bellezza, il suo prezzo: il tempo che dà vita e morte, il tempo/madre
chiave di lettura delle opere di Damson.
Alessandra Santin
DAMSON / FEMMINILE,
SINGOLARE
di Giuliano Serafini
C’è un evento
traumatico all’origine dell’opera di Damson.
Se non staremo a riportare l’aneddoto, è comunque certo che a
ignorarlo non si renderebbe giustizia a un lavoro che intorno a quell’episodio
continua a girare in orbita, consciamente o no.
Prima ancora che rispondere a una necessità creativa, è
piuttosto verosimile che l’artista abbia voluto svolgere un atto esorcistico su
quell’antico episodio, riscattarlo in forma di opera. Purificarlo. Come dire
che si è trattato di inventare una liturgia, un rito da celebrare.
Per Damson l’arte è diventata insomma il diaframma che separa e
insieme unisce memoria e presente, emozione e superamento, privato e sociale.
Una pratica di rimozione, certamente, ma anche un antidoto che non può curare e
guarire del tutto, che bisogna portarsi dietro con sé per
sempre. Senza dimenticare – e come si vedrà è proprio
il caso di Damson - che l’antidoto è composto degli stessi
ingredienti del veleno che si vuole neutralizzare.
L’incipit di Damson somiglia a una folgorazione, di quelle che
sanno di destino, che non si rinunciano: improvvisa, rivelatrice, fatale. Un
segno che come in un flash porta alla consapevolezza brutale di una condizione psicologica,
culturale e storica tutta al femminile.
Quasi a cercare una risposta a quello
cui ha appena assistito, Damson bambina - ma all’epoca il suo nome era ancora Melissa - apre un armadio al cui
interno, appeso, c’è un abito da sposa, bianco come una vittima sacrificale.
Ancestralità e futuro si congiungono all’improvviso in
quella sineddoche di abbagliante purezza. E per Damson il presentimento diventa
subito viatico da percorrere: non ha alternative, obbedisce, sa che quella e la strada da seguire.
La “sua”. E’ una sorta di trance che
le permette di portare avanti l’opera a un livello di coscienza sub-limine,
tutta en dedans, attraverso un
percorso che somiglia a un urlo soffocato che qualcuno dovrĂ ascoltare.
Nel tempo, l’episodio cruento che ha segnato la sua infanzia si
sublima attraverso una sorta di risalita emotiva, fino ad appagarsi in una graduale
ma ferma cognizione: che il sangue è innanzitutto l’elemento
vitale che appartiene “di diritto” alla donna, il flusso che ritma le sue
stagioni biologiche, dal mestruo alla deflorazione e al parto, ma anche a una
violenza subita. L’impurità di cui secoli di oscurantismo misogino hanno
marchiato il “sesso inutile”, diventa così terreno d’azione creativa, ossessione
tematica, materiale d’indagine che dovrà essere sviscerato con crudezza ma anche
con spirito di orgogliosa rivalsa. Perfino con ironia, che per paradosso è la prerogativa
delle anime autenticamente conflittuali.
Attraverso una produzione
di straordinaria vastitĂ che va dalla pittura al collage, dalla fotografia
all’installazione, fino all’oggetto, Damson ribadisce in
definitiva che nella vicenda
esistenziale della donna niente è innocente: anche e
soprattutto quando a tracciarla sono i suoi stessi feticci culturali, il suo
repertorio di romantici ornamenti, di intimitĂ affettuose: veri abiti nuziali,
corpetti, camicie da notte, nastri, pizzi, farfalle, vecchie fotografie, specchi,
tutto un catalogo muliebre compilato minuziosamente fino all’eccesso. Quello
che viene messo in scena è reale e tangibile perché la demistificazione risulti
piĂą spietata. Cordone ombelicale ma anche filo di Arianna, una linea serpentina
segna tra queste reliquie un itinerario che non conduce ad alcuna meta. Inevitabilmente l’opera va verso la metafora e l’allegoria. Tra totems dell’infanzia e mitologie private, nell’inventario
di Damson anche thanatos ha diritto
di asilo. Sono spoglie, involucri, scorze di quanto dovrebbero contenere.
rappresentazioni di una perdita. Su tutto, a emergere, è quello che non si
vede: il corpo. Assente, diventa il fattore che permette all’artista di uscire
dalla gabbia autobiografica per avventurarsi in una dimensione maggiore, quella
del simbolo, lĂ dove tutte le direzioni saranno possibili e l’opera potrĂ
infine rivelare il suo alter ego universale.